sabato 18 febbraio 2017

Dalida

La coproduzione italo-francese dedicata alla vita e alla tragica morte di Iolanda Gigliotti, meglio nota con il nome d’arte di Dalidà, può piacere o meno. A chi scrive è piaciuta, nonostante  l’abuso ormai frequente della tecnica del flashback, che non aiuta la scorrevolezza della narrazione, e qualche incertezza nel “ridoppiaggio” da parte degli interpreti italiani, dopo l’originaria produzione Pathè. “Specifico filmico” a parte, la pellicola andata in onda mercoledì scorso su Rai 1 presenta comunque un grande merito: quello di avere portato, sia pur con pochi fotogrammi, a conoscenza del grande pubblico una persecuzione di cui la stragrande maggioranza dei nostri connazionali è all’oscuro: la deportazione in campi di concentramento nel deserto egiziano degli italiani maschi dai 15 ai 65 anni (e delle donne ritenute “pericolose”), dopo il 10 giugno 1940. L’operazione Tombak, questo il nome in codice della retata, fu imposta al riluttante governo egiziano dagli inglesi, che esercitavano di fatto il protettorato sul Cairo e che imposero la rimozione del primo ministro Ali Maher, favorevole a noi italiani, e per questo internato anche lui. A effettuare gli arresti furono poliziotti egiziani, probabilmente meno maldisposti verso i nostri connazionali di quanto non appaia dalla pellicola, perché la nostra presenza ad Alessandria e al Cairo era apprezzata e aveva contribuito alla crescita economica e culturale di quella nazione, ma a gestire di fatto il piano Tombak furono le truppe britanniche.
In realtà, l’Italia non dichiarò mai guerra all’Egitto, e viceversa; molti giovani ufficiali, fra cui Nasser e Sadat, simpatizzavano più o meno scopertamente per l’Asse e molti egiziani aspettavano con ansia le truppe di Rommel e l’arrivo ad Alessandria di Mussolini, il cui nome veniva benevolmente storpiato in Mussa Nili: il Mosè del Nilo, destinato a redimere il Paese delle Piramidi dall’arrogante colonialismo britannico.
La deportazione degli italiani d’Egitto, il sequestro dei loro beni, l’abbandono in stato d’indigenza delle loro famiglie, fra cui quella di Dalidà, fu un’operazione priva di giustificazioni giuridiche per cui non ha pagato nessuno e di cui hanno parlato pochissimi. La maggior parte dei deportati fu reclusa nei terribili campi di concentramento del Fayed, in pieno deserto; molti perirono di stenti, alcuni sotto il piombo dei carcerieri inglesi o delle sentinelle di colore. Solo la benemerita Ande (l’Associazione che ha conservato la memoria della nostra presenza in Egitto, animata dalla straordinaria personalità di Franco Greco) ha dedicato alla vicenda una documentatissima e obiettiva pubblicazione liberamente consultabile su internet (http://www.qattara.it/italiani%20d’egitto_files/gli-italiani-degitto-nella-seconda-guerra-mondiale.pdf).
Chi ha seguito la pellicola ha capito che la tragedia personale di Dalidà, la sua depressione, il suo sofferto rapporto con gli uomini, furono legati all’arresto e alla durissima detenzione del padre. Questi, di origini calabresi, raffinato e delicato primo violino dell’orchestra del Cairo, non si riprese mai dalla prigionia, che lo rese alla fine della guerra un uomo risentito col mondo, violento con la moglie e con la stessa amatissima figlia. Una piccola tragedia in una grande tragedia della storia di cui sarebbe bene gli italiani venissero a conoscenza, e non solo attraverso qualche fugace fotogramma.

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